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Ma quando lo facciamo un tema?

2021-01-09 16:53

Emanuela Abbate

scuola, scrittura, riflessione, pensieri, parole, insegnare, insegnante, italiano, imparare, educazione, Calvino,

Ma quando lo facciamo un tema?

Qual è l’aspettativa di risultato nell’educazione alla scrittura? Quali sono le lezioni trasversali che impariamo dall’esercizio dello scrivere?

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente” diceva Calvino su “Il Giorno”, il 3 Febbraio del 1965. E che cosa fosse l’antilingua lo si capiva facilmente, grazie al brillante esempio che lo scrittore aveva poco sopra riportato: l’antilingua era quel fenomeno contagioso che portava alla trasformazione di un enunciato semplice ma comprensibile come 

 

Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata” 

 

nel fluente burocratese poliziesco: 

Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante".

 

Secondo Calvino, questa lingua senza anima e mortale nemica dell’espressività, già allora stava invadendo le penne degli Italiani e la soluzione non era quella del nobile e sdegnato rifugio intellettuale, ma anzi quello della pratica quotidiana dell’uso della lingua, sia orale che scritto. 

E se l’intento dell’autore non era quello di parlare di scrittura ma di lingua e linguaggio in generale, le sue considerazioni mi sono balzate alla mente giorni fa, quando mi sono trovata ad articolare in modo più o meno coerente la risposta alla domanda: “Ma quando lo facciamo un tema?”

Il cuore e la memoria sono andati subito lì, a quell’ominosa presenza dell’antilingua e delle idee preconcette di scrittura che l’hanno prodotta.

 

La tradizione ce lo mostra e ne abbiamo tutti memoria: a scuola si scrive, si argomenta e si inventa, ma per anni, decenni addirittura, come si arrivasse a quel prodotto finito: “il tema”, nessuno ce l’ha davvero spiegato. E così la parola è diventata segreta: guai a far leggere un elaborato in classe! Guai a mostrare un tema svolto perché poi ovviamente ne avremmo tutti preso fedelissimo spunto. La scrittura non era condivisa e aleggiava su tutto l’ombra del “talento”, del dono naturale di chi sa scrivere e si agita sulla pagina a un minuto dalla ricezione della consegna, contro quelli che osservano il vuoto del foglio e aspettano quella che hanno imparato a pensare cosa ordinaria: l’ispirazione.

 

Per fortuna, la pratica della pedagogia in ambito di scrittura è progredita meravigliosamente anche in Italia, dove sono numerosi gli insegnanti che investono i loro sforzi verso un insegnamento che sottragga la capacità di scrittura all’idea romantica del talento e dell’ispirazione, per assegnarla invece alla sfera del mestiere, che si perfeziona con strumenti ed esercizio e che ha una connotazione pratica imprescindibile. 

 

Perché scriviamo infatti? 

Nella vita, le persone scrivono per scopi reali in contesti di vita reale ed è noto agli educatori come gli studenti imparino a scrivere meglio quando la consegna della scrittura è inserita in un contesto. 

Nella vita però le persone elaborano anche pensieri complessi e qualche volta si trovano anche ad formulare le proprie opinioni in forme più articolate sia orali che scritte. 

Come si prepara un alunno a svolgere bene queste funzioni? Tramite l’insegnamento della scrittura, non solo nelle sue forme pratiche così come richiede l’uso sociale anche nel mondo del lavoro, ma come laboratorio di pensiero critico e autonomo.

 

Scrivere:

è comunicare, è un atto sociale, sia quando l’interlocutore è solo il nostro “Caro Diario”, sia quando scriviamo ad altri che ci leggeranno, per scopi pratici

è una funzione dell’ascolto: non esisterebbe scrittura senza l’ascolto di sé o del prossimo

è pensare, riformulare un pensiero con chiarezza dopo avergli dato un corpo.

 

Scrivere offre occasioni di ripensamento e revisione della struttura, un’occasione che difficilmente ci è data nell’argomentazione orale, la scrittura può dunque servire da palestra dove esercitare la logica e laboratorio dove testare formule, idee e parole. 

 

Da educatori non possiamo promettere di creare, tramite l’insegnamento della scrittura, degli affermati autori di saggi o romanzi. Possiamo però garantire, tramite la scrittura, un esercizio di pensiero, un’occasione per esplorare la creatività, imparare a sbrogliare la matassa di una situazione complessa o un pensiero convoluto organizzandone premesse, cause e conseguenze, analizzare dati e trarne informazioni da usare poi per formulare opinioni, imparare i registri della comunicazione interpersonale, offrire l’esperienza pratica della redazione di una presentazione o di un report, la stesura di una e-mail ben formulata e lo sviluppo del pensiero concettuale per la formazione di individui capaci di riflessione: tutte doti richiestissime nello studio e in un mondo del lavoro in continua evoluzione.

Quale sarà il parametro dello scrivere bene? Non l’esibizione del massimo pathos o del più vivace estro, ma l’uso adeguato di registri e strutture congrui allo scopo (l’originalità e il carattere portano semmai punti extra).

 

Come si arriva a tutto ciò? Per gradi. Per insegnare efficacemente la scrittura deve essere chiaro il principio che imparare a scrivere è far proprio un processo che costruiamo a poco a poco, come in una vera officina del sapere che ci porta dallo scarabocchio alla lettera, dalla frase al periodo, dalla lettera commerciale al romanzo. E dal riassunto all’elaborato nel caso della mia classe.

E in questo la scrittura non è diversa da altri tipi di sapere e mestiere, che prevedono la conoscenza di tecniche di base con cui poi si creano i capolavori. Arriverà il momento per i lunghi elaborati d’opinione, per condividere pensieri in commento a una poesia da noi non selezionata, ma non potrà essere misterioso punto di partenza e di arrivo insieme. Sarà una tappa del percorso. 

 

C’è chi dice che la scuola sia l’ultimo baluardo di resistenza che si deve imporre contro la banalizzazione della lingua e la frammentazione senza contesto della comunicazione, soprattutto digitale. Non dissento, magari non condivido la drammaticità di alcuni appelli alla severità, ma non dissento. La scuola serve anche a questo. 

Ma credo anche che la battaglia contro la semplificazione della lingua o della comunicazione non si vinca a suon di lunghi elaborati teorici o guizzi creativi propri del genio richiesti a tutti allo stesso modo, ma rendendo più critiche le menti, più articolati i pensieri e più lineari le frasi. 

Calvino lo sapeva: sarebbe nata una lingua più internazionale, veloce. E accanto ad essa sarebbe rimasta una lingua “agile, ricca, liberamente costruttiva” e intraducibile, propriamente Italiana, propriamente Araba, propriamente Tedesca: riflesso di una cultura e di una forma mentis che sta a noi tutelare contro l’antilingua e il pensiero che la crea.

 

Cosa ho risposto dunque a chi poneva la domanda “Ma quando lo facciamo un tema?”

In cuore mio, con questo articolo. Nella realtà? “Nel secondo quadrimestre”.