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La somiglianza non si nota ma solo la differenza sciocca

2022-02-22 11:04

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Disabilità , Diversity, Netflix , Serie TV , Rappresentazione , film , l'ottavo giorno , cripface , cinema,

La somiglianza non si nota ma solo la differenza sciocca

L'Ottavo giorno si propone di portare sullo schermo una visione "innovativa della disabilità", se lo si guarda con un occhio contemporaneo.

“La somiglianza non si nota ma solo la differenza sciocca" così afferma Harry, durante una delle sue lezioni aziendali. Immerso nella frenesia della sua vita lavorativa, il giovane uomo in carriera perde poco per volta di vista le cose veramente importanti, come ad esempio la sua famiglia. Solo a seguito dell'incontro con Georges (Pascal Duquenne), un giovane ragazzo con la sindrome di Down, Harry (Daniel Auteuil) riuscirà a ricomporre in parte la sua esistenza. Diretto da Jaco Van Dormael e presentato al Festival di Cannes del 1996, il film L'ottavo giorno si propone di portare sullo schermo una visione per certi versi "innovativa della disabilità", se lo si guarda con un occhio critico contemporaneo.




Questo lo si può fare, poiché fortunatamente nell'ultimo decennio, il cinema ha profondamente riscritto "le regole della rappresentazioni della diversità". Basti pensare alle più recenti serie tv curate da Netflix, come nel caso della realizzazione di Special o, ancora, seppur in fase embrionale, il progressivo abbandono della pratica della Cripface di cui abbiamo parlato recentemente sui nostri canali social. Il film proposto, ovvero L'ottavo giorno, si colloca esattamente in una fase di passaggio cruciale per questo "nuovo modo di mostrare il diverso". Seppur siano presenti nella narrazione tantissimi stereotipi, nella "pellicola" troviamo alcuni elementi che introducono forti temi, che ovviamente contestualizzati a metà degli anni Novanta non potevano passare inosservati.

Primo tra tutti il bellissimo scorcio della danzatrice Natalie (Michele Maes), anche lei ospite dell'istituto in cui vive Georges. Dal primo istante il regista, rifacendosi un po’ alle tecniche dello spionaggio tipiche della commedia erotica degli anni '60, riesce a rendere estremamente semplice con un'eleganza e un'innocenza quasi disarmanti, la rottura di uno degli stereotipi più scontati: ovvero l'impossibilità dell'essere di essere. Natalie si inserisce perfettamente nella parte. I movimenti, le pose e gli esercizi sono precisi ed eleganti. Non c'è goffaggine nei movimenti, solo eleganza e fierezza. Agli occhi degli spettatori lei è una ballerina. Non una persona che con disabilità, ma semplicemente una ballerina. Questo è solo uno dei tanti aspetti che durante la visione della pellicola ho trovato affascinanti e innovativi. Tutt'ora vedere come una delle arti più rigorose e severe nota per la durezza e le infinite puntigliosità, "si arrenda alla più distante" delle realtà può sembrare scontato, ma all'epoca non lo era di certo. Questa piccola opposizione contiene dunque un messaggio veramente rivoluzionario: La diversità ancora una volta non limita il singolo, ma semplicemente fa parte di lui. Non lo frena, non lo condiziona, semplicemente fa parte del suo mondo e della sua quotidianità. E da qui emerge, sempre da un punto di vista personale, un altro tema fondamentale: quello della normalità.


 Fino ad allora le pellicole più influenti del filone cinematografico a cui ci riferiamo, tendevano a mostrare una versione quasi eroica e/o angelicata della disabilità, ricadendo appieno nell'archetipo dell'ingenuo salvatore. Nel film, seppur questa visione sia ancora presente, in realtà i personaggi acquistano caratteristiche molto più "umanizzate". I gesti, i dialoghi, le azioni sono frutto di un processo logico basato non solo più su un'idea di super uomo o al contrario di terribile fragilità, ma bensì, di un mix di emozioni a volte buone, a volte egoistiche, ma sempre guidate da una logica causa-effetto. Questo è importante dal punto di vista personale, perché per la prima volta ci si distacca un po’ da quel "modello alla Forrest Gump" del "non so perché ma mi misi a correre". Ne L'ottavo giorno i protagonisti sono autonomi. Compiono le loro scelte, vivono le loro esistenze perché hanno desideri e volontà. Le loro azioni hanno sempre un significato, non sono dettate dal caso e non sono volte a una causa superiore. I protagonisti, seppur legati e incasellati in storie e caratteristiche stereotipate come: "l'innocenza angelica di chi ha una disabilità, l'incuranza famigliare o ancora, l'ipocrisia di chi cerca di vivere una vita pacata al centro di una grande città", trovano il modo di uscire dagli schemi e dalle consuetudini. La disabilità non è più rappresentata, come nella maggior parte delle opere precedenti come una condizione diversa dell'essere, ma bensì come un punto di partenza. Il film pare voglia evidenziare che la disabilità in sé, non rappresenta più un limite per il singolo, ma solo dal punto di vista della società che non si cura di conoscere ciò che apparentemente non può essere inglobato nella frenesia della modernità, e di conseguenza deve essere arginato o peggio ancora dimenticato. Dunque, in fondo, chi ha disabilità non è posto su di un gradino elevato, ma bensì si ritrova a dover lottare come qualsiasi altro essere umano contro l'indifferenza della società. Questo passaggio è reso esplicito quando la sorella di Georges si rifiuta di accoglierlo in casa:



"Io voglio vivere Georges, questa è la mia vita. Io l'ho detto alla mamma che non mi sarei presa cura di te".



Pensiero comune, stereotipato, di chi non conosce la verità. Come si vedrà nel corso del film e come di fatto è nella realtà, chi ha la sindrome di Down non necessariamente vincola le esistenze altrui. Questo fatto, a parere del tutto personale, cerca di denunciare un altro aspetto del tutto stereotipato della società, ovvero che il diverso coincida per forza con la privazione di qualcosa. Georges, durante il film, ci racconta molto di come la società si relazioni alla diversità in quegli anni. Le sue scelte, specialmente quella finale, saranno sempre condizionate da una totale indifferenza della società nei suoi confronti, dove il problema non è tanto rappresentato "dall'essere diverso", tanto quanto dell'essere uno sconosciuto. Il termine sconosciuto non si riferisce in questo caso soltanto a una persona di cui non conosciamo nulla, ma bensì di uno sconosciuto che resta tale in quanto diverso e di conseguenza sconosciuto anche nella sua diversità. Basti pensare alla scena nel negozio di scarpe: nessuno sa chi è Georges, ma tutti hanno paura di lui, dopo un solo sguardo. Per loro lui è diverso, è estraneo ed è fuori contesto semplicemente perché non lo si conosce appieno. Georges, una volta compresa la superficialità con cui lo trattano, giustamente decide di burlarsi di questa irrazionale reazione da parte di una commessa impacciata e del suo direttore superficiale. Sono queste e tante altre piccole azioni che permettono al protagonista di farci capire che l'essere diverso non è nulla di più che una caratteristica paragonabile al colore dei capelli e degli occhi. Come tutti conosce l'amore, la gioia, la tristezza ed è capace di odiare e aiutare. Come tutti, è capace di vivere. Il problema è nella società, la quale lo nota solo nelle sue somiglianze, ma si sciocca solo delle diversità. L'ottavo giorno sotto quest'aspetto si può quindi considerare un film che cerca di superare a modo suo alcune rappresentazioni legate alla visione ignorante e comune della diversità. Per questo a mio avviso resta un film che merita di essere visto almeno una volta poiché permette, almeno in parte, di rendere il pubblico un po' più consapevole che le disabilità nel grande schermo, sono solo una proiezione dell'idea che si ha della questione, e non rappresentano l'assoluta verità.




Alice Rolando, in collaborazione con Utensilia APS