Sulla scia dei precedenti articoli del nostro blog, in cui abbiamo parlato di migrazioni e multiculturalità, mi sono soffermata a riflettere sul tema della diversità. Ritengo che essere immersi in una società formata da gruppi di etnie e religioni differenti sia un valore aggiunto; far parte di un insieme eterogeneo ed essere a contatto con realtà socio-culturali diverse consiste in un arricchimento sul piano personale e sociale. Ma inevitabilmente l’essere parte di una società complessa implica una serie di comportamenti non sempre vantaggiosi, dati da fenomeni psicologici intrinseci alla natura sociale umana.
La diversità è legata al concetto di “Altro”: l’Altro viene considerato come parte dello sviluppo del concetto di Sé, quindi della propria identità e personalità. Già da bambini iniziamo questo processo differenziandoci dal caregiver (il nostro primo “altro”) confrontandoci, dopo una fase di identificazione, per modificare il nostro concetto di sé e dare vita alla nostra identità personale. Questo processo, in maniera similare, continua per tutta la vita e fa parte anche del comportamento tipico dei gruppi, i quali costruiscono una propria identità differenziandosi dall’out-group, cioè da chi non fa parte del gruppo perché mancante di certe caratteristiche fondamentali. Il senso di appartenenza al gruppo è innato; può essere stabilito anche da criteri deboli, ma la conseguenza è sempre quella di produrre favoritismo per il proprio gruppo, a svantaggio di ciò che ne è esterno.
A livello collettivo gli individui sono portati a crearsi un’identità sociale basata sull’appartenenza a determinati gruppi, piuttosto che in termini di caratteristiche individuali. Come mostrato dagli studi degli psicologi Tajfel e Turner, l’identità sociale delle persone si viene a creare grazie a meccanismi innati, quali la categorizzazione, tramite cui massimizziamo le somiglianze, e l’identificazione con ciò che sta dentro il gruppo (in-group) e che ne condivide caratteristiche sostanziali.
È proprio da questi comportamenti sociali, innati e spesso inconsci, che si sviluppano particolari bias cognitivi, vale a dire distorsioni della realtà che, per diversi motivi, portano a interpretazioni erronee. Un famosissimo bias è lo stereotipo, cioè una raffigurazione rigida ed eccessivamente semplificata di un aspetto della realtà, in particolare di un determinato gruppo o categoria sociale. Lo stereotipo normalmente si basa su pochi tratti tra loro coerenti e piuttosto diffusi nella società; hanno quindi un fondo di verità ma non sono una fotografia esauriente della società. Alcuni stereotipi sono “innocui”, possono influenzare il comportamento ma non producono concreti atteggiamenti di ostilità (basti pensare a quelli sulla nazionalità, come il pensiero che gli italiani siano scansafatiche, gli svizzeri precisi…).
Alcuni purtroppo possono portare a vere e proprie forme di discriminazione, alimentando un’altra tipologia di bias: il pregiudizio. I pregiudizi sono infatti opinioni su persone e gruppi formulate senza prove a supporto; per dirla come Galimberti sono “anticipazioni acritiche di giudizio”. Risultano molto insidiosi perché non sempre ne abbiamo coscienza e si formano giudicando un soggetto non per le sue effettive caratteristiche personali, bensì per il fatto di essere membro di una specifica categoria. A tal proposito vi consiglio la visione di un interessante intervento della dottoressa Maddalena Marini (https://www.youtube.com/results?search_query=pregiudizio+ted+talk), la quale, parlando delle discipline scientifiche viste come “maschili” e delle materie umanistiche come “femminili”, dimostra come il pregiudizio possa essere radicato senza che ce ne rendiamo conto.
Perché succede questo? Perché esiste una certa resistenza dei pregiudizi, data dalla tendenza a percepire e ricordare soltanto gli aspetti della realtà che sembrano confermare l’opinione che abbiamo appreso.
Chiaramente, non tutti i pregiudizi hanno la stessa valenza, ma il problema sorgeè quando ci troviamo di fronte a quelli che producono discriminazioni e disparità. Riprendendo il tema iniziale della multiculturalità è facile intuire come i pregiudizi legati alla cultura, alla religione e all’etnia siano un aspetto da non sottovalutare, poiché questi possono portare a veri e propri scontri e sopraffazioni di alcuni gruppi rispetto ad altri.
E allora, come vincere stereotipi e pregiudizi? Chiaramente una risposta semplice non esiste, essendo un aspetto di cui non sempre si ha consapevolezza ed essendo un fenomeno che fa parte di comportamenti comuni quando si parla di identità sociale. Possiamo però favorire la conoscenza dell’altro, in modo che vengano acquisite informazioni che mettano in discussione i pregiudizi formati in precedenza. Come suggerito dallo psicologo Allport, favorire il contatto e la conoscenza tra gruppi può arginare l’applicazione automatica del bias cognitivo, sia perché possono mutare convinzioni erronee, sia perché si possono trovare elementi in comune che non erano conosciuti. Se vissuta con curiosità e consapevolezza, la multiculturalità diventerà davvero fonte di arricchimento ed evoluzione per gli individui.