13 Aprile 2021: inizia il Ramadan, il mese sacro del digiuno per ogni musulmano, in cui si commemora la prima rivelazione del Corano a Maometto.
Questo mese è dedicato alla preghiera, alla meditazione e all’autodisciplina. Il digiuno, è uno dei cinque pilastri della fede islamica: è uno degli obblighi fondamentali dettati dal Corano per tutti i musulmani praticanti adulti e sani, che dall’alba al tramonto non possono mangiare, bere, fumare e praticare sesso (dal digiuno sono esentati i malati, i minorenni, i vecchi e le donne in gravidanza o che allattano). Inoltre essendo il Ramadan anche un mese in cui ricordare e celebrare la generosità, viene scelto da molti musulmani per effettuare il versamento della zakat (l'elemosina rituale).
Avendo qui in Italia vari amici di fede musulmana, praticanti e instancabili lavoratori, mi sono chiesta: quali e quante problematiche nascono dall’intersezione tra professione di una religione e ambiente lavorativo? Bisogna tener conto dei giorni festivi stabiliti da ciascuna confessione religiosa?
Sappiamo bene che ogni religione ha un certo numero di festività stabilite, in occasione delle quali i fedeli sono tenuti ad astenersi dal lavoro e a compiere atti di culto. Tuttavia, solo alcune festività assumono una rilevanza nell’ordinamento statuale, qualora vengano riconosciute per legge come momento celebrativo valido per l’intera comunità civile.
In Italia, come da lunga tradizione, alcune ricorrenze religiose (ad esempio il Natale o la Pasqua) hanno ormai assunto un significato secolarizzato e sono fortemente radicate nella nostra società. Queste ricorrenze previste dal calendario liturgico cattolico, assieme alle festività civili, sono sancite dall’art. 2 della legge n. 260 del 1949, che stabilisce un elenco tassativo di giorni festivi e determina l’osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici.
In Italia, le relazioni tra le confessioni religiose e lo Stato sono regolamentate dalle disposizioni contenute all’interno dell’art. 7 (che disciplina esclusivamente i rapporti con la Chiesa cattolica) e dell’art. 8 della Costituzione, che sancisce che i rapporti dello Stato italiano con «le confessioni religiose diverse dalla cattolica» debbano essere regolati «per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze» (C. Morucci, 2018).
Ad oggi il ‘mondo islamico’ presente in Italia, non sembra ancora essere riuscito ad intraprendere il percorso di formale riconoscimento e di stipulazione delle Intese, come invece successo per altre dodici confessioni religiose. Già dagli anni novanta, non sono mancati i tentativi da parte delle varie comunità e organizzazioni islamiche: nel 1992, da parte dell’UCOII (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche), nel 1994 dell’Ami (Associazione musulmani italiani) e infine nel 1998 dalla COREIS (Comunità religiosa islamica italiana). Nessuna di queste differenti proposte di intesa ha mai potuto riscontrare esito positivo.
Quindi, dato che negli anni non è mai stata raggiunta un’Intesa tra comunità islamica e ordinamento italiano, come affrontare questa spinosa questione?
Senza dubbio le religioni predispongono codici di comportamento e influenzano la vita del fedele in una pluralità di ambiti: il fattore religioso è una di quelle “forze” culturali in grado di condizionare fortemente le scelte degli individui. Ma come già anticipato, prendiamo in considerazione proprio l’ambito lavorativo.
Le prestazioni e i rapporti lavorativi sono spesso condizionati dall’osservanza di determinati precetti confessionali, finendo per incidere sulle politiche di integrazione. Un’efficace integrazione lavorativa dovrà tenere in conto dette variabili per poter garantire una migliore inclusione dei soggetti migranti nella società europea. A tal proposito, in Italia, ai sensi dell’art. 2087 c.c. «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»; inoltre il datore di lavoro deve «adottare le misure tassativamente previste dalla legge, ma anche tutte le altre misure richieste in concreto per salvaguardare la salute del lavoratore».
Ma adesso analizziamo nel concreto la questione di cosa comporti celebrare il Ramadan e continuare la propria attività lavorativa. Riuscite a pensare di lavorare tutto il giorno digiunando dall’alba al tramonto? Sia la nostra mente che il nostro corpo ne risentirebbero sicuramente, finendo per influire e compromettere le nostre prestazioni lavorative. Dobbiamo pensare che il mese del digiuno può capitare in piena estate: non sono da sottovalutare quindi gli sforzi fisici richiesti da una particolare mansione (ad es. lavoro nei campi) e l’esposizione a temperature elevate.
È necessario che sia datore di lavoro che i lavoratori affrontino al meglio questo peculiare momento della vita religiosa dei musulmani, nell’ottica proprio di attenzione alla salute e sicurezza lavorativa. Ad esempio, il datore di lavoro si dovrebbe prima di tutto preoccupare di constatare quanti dei propri lavoratori seguono il Ramadan e conseguentemente predisporre un piano di lavoro adeguato, sia per una migliore distribuzione dei carichi di lavoro sia per l’organizzazione delle pause di lavoro durante la giornata. Potrebbe prevedere la riduzione degli sforzi fisici durante le ore più calde, tenere sotto monitoraggio la situazione e predisporre misure di supporto in caso di malore.
Tanto per citare un episodio, nel 2009 a Mantova si è verificato un caso in cui l’esercizio della libertà religiosa dei lavoratori non è stato tutelato. Qui, il Comitato per la sicurezza in agricoltura aveva imposto ai lavoratori musulmani di bere acqua durante il periodo di Ramadan per evitare i rischi legati alla disidratazione, disponendo la pena della sospensione temporanea dall’attività lavorativa o addirittura dell’interruzione del rapporto di lavoro. Questo è un chiaro episodio in cui i lavoratori si vedono negata la propria libertà religiosa: conseguentemente ne risulta colpita anche la loro dignità nell’ambito lavorativo, venendo così minato il loro accesso agli strumenti economici. Questo meccanismo provoca inevitabilmente un abbassamento della qualità della vita di chi ne è colpito, con un conseguente peggioramento della condizione di integrazione.