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Parliamo ma non ci comprendiamo | Presupposti, punti di forza e limiti del dialogo interreligioso

2021-05-12 13:50

Danny Casprini

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Parliamo ma non ci comprendiamo | Presupposti, punti di forza e limiti del dialogo interreligioso

Una società multiculturale richiede una maggiore interazione tra le identità che la compongono. Può il dialogo interreligioso evitare lo scontro tra civiltà?

Fin dalla grande preghiera per la pace indetta da Papa Giovanni Paolo II nel 1986, si parla spesso di dialogo interreligioso e negli ultimi 35 anni si sono succedute numerose esperienze di avvicinamento tra le tre religioni monoteiste che caratterizzano l’area mediterranea: l’Ebraismo, il Cristianesimo (nella sua accezione Cattolica romana) e l’Islam. Tra queste esperienze si annoverano in particolare la lettera dell’ottobre 2007, firmata da 160 guide religiose musulmane, indirizzata all’allora Papa Benedetto XVI e a numerosi patriarchi delle Chiese d’oriente, dove si riconosce nell’amore verso Dio e verso il prossimo, il punto di contatto tra le tre “religioni del libro”. Ancora un esempio di dialogo tra le religioni monoteiste ci è dato dall’incontro dell’aprile del 2015 tra Papa Francesco e la delegazione della conferenza dei rabbini europei nella quale è stato sottolineato il comune impegno a mantenere vivo il senso religioso del genere umano. Nello stesso anno si ricorda anche l’azione svolta dalle Conferenze Episcopali Cattoliche Europee con la Conferenza delle Chiese Europee per cercare di unire in una sola voce i cristiani d’Europa.

 

Ma cosa si intende per dialogo interreligioso e perché le religioni e i loro aderenti sentono la necessità di dialogare? Se la risposta alla seconda domanda dipende molto da quelle che sono le intenzioni e le motivazioni nell’approcciarsi al dialogo, rispondere alla prima è più semplice. Con dialogo interreligioso si intende l’interazione positiva e cooperativa fra gruppi di persone appartenenti a differenti tradizioni religiose, basata sul presupposto che tutte le parti coinvolte, a livello individuale e istituzionale, accettino e operino per la tolleranza e il rispetto reciproco. Il dialogo, così, mira a costruire un ponte tra le diverse comunità religiose; comunità, che, in passato più che adesso, potevano considerarsi isole nel mare. Il dialogo interreligioso in questo senso potrebbe aiutare a superare gli stereotipi che tentano di rinchiudere le diverse confessioni religiose in mondi separati, isolati, nei quali ognuno è attento al suo orticello e poco si cura degli altri.

 

Spesso proprio le incomprensioni, la distanza e l’ignoranza verso l’altro hanno alimentato l’intolleranza e il fondamentalismo religioso, fomentando violenze e scontri che nei secoli hanno condotto a vere e proprie guerre. In questo senso, il dialogo aiuta a comprendere l’unicità delle identità personali e di comunità e può svolgere proprio una funzione di terreno di incontro e confronto tra soggetti diversi che non rinunciano alle loro caratteristiche e specificità, ma anzi trovano nella relazione con l’alterità una maturazione e una nuova conoscenza di sé. A differenza del sincretismo e della neutralizzazione identitaria, il dialogo sprona proprio a porsi in modo nuovo domande sulla qualità della fede senza necessità di giungere a conclusioni accettate universalmente. Infatti, partecipando ad un dialogo si accetta anche la condizione che non possa esserci convergenza su una posizione unitaria.

 

In questo senso, credo, il costituirsi di società multiculturali, a seguito del processo di decolonizzazione e dei più recenti fenomeni migratori, sia alla base della necessità di avere un dialogo tra le religioni. In questi contesti, infatti, il dialogo non è solo una scelta, ma una necessità di convivenza civile quale unica alternativa viabile allo scontro tra civiltà di cui ha scritto in maniera estensiva Samuel Huntington agli inizi del millennio. Il dialogo forma, in questo senso, la base per la contaminazione tra culture e la creazione di forme di convivenza interculturali in cui spesso si formano degli ibridi transculturali giungendo, talvolta, ad esperienze culturali nuove. Il dialogo ha questa forza proprio perché la sua funzione è quella di far parlare i partecipanti, di porli allo stesso livello e farli confrontare in maniera positiva sui temi di loro interesse, senza voler  convincere gli altri della validità della propria tesi a discapito delle posizioni altrui che invece caratterizza il dibattito. 

 

In questo modo, i temi della convivenza quotidiana (usi alimentari e/o costumi), così come la libertà di coscienza e la libertà di manifestazione del credo religioso, diventano fondamentali all’interno del contesto del dialogo. È proprio dopo un periodo di apparente silenzio alla fine del secolo scorso che la religione è tornata prepotentemente a bussare alle porte dello spazio pubblico, tantoché Jurgen Habermas ha parlato di società post-secolare, nella quale si assiste al ritorno delle religioni. Un “revival” che riscontra nella religione la forza di soddisfare quei bisogni ai quali l’individualismo, il narcisismo, la razionalità e la laicità non trovano risposta (o non ne trovano una soddisfacente).

 

In letteratura, si riscontrano due elementi fondamentali per la riuscita del dialogo interreligioso e queste sono la garanzia della libertà religiosa e l’affermazione di una laicità assertiva. Mentre la prima è una libertà tutelata sia dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che dalla nostra Costituzione e si concretizza solitamente nella libertà di esercizio delle proprie convinzioni religiose nel rispetto del pluralismo e senza possibilità di discriminazioni, la seconda è più difficile da definire. Generalmente, la laicità assertiva si definisce come la capacità della laicità di superare l’opposizione ottocentesca tra civile e religioso. In tal senso la laicità dovrebbe andare oltre l’idea che la privatizzazione della confessione di fede sia essenziale alla neutralità dello Stato, ma è capace di costruire uno spazio dialogico dove le diverse comunità di fede, tutelate nella propria differenza, possano convergere nel reciproco riconoscimento. Con questi presupposti il dialogo può avvenire in  condizioni di mutuo rispetto senza imposizioni e senza tentativi di proselitismo.

 

Quindi, se i presupposti di un buon dialogo interreligioso sono questi due, come mai è stato così difficile giungere ad esperienze di dialogo come quelle citate sopra? Io ho una mia risposta, ma prima di condividerla vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che ogni comunità elabora e accetta un proprio sistema di credenze, composto da quei riti e da quelle pratiche dalle quali nasce il senso di appartenenza dei fedeli. Guardando alle religioni monoteiste diffuse sulle sponde del mediterraneo - Ebraismo, Cristianesimo e Islam - le quali riconoscono in Abramo il padre comune e condividono gran parte delle scritture sacre, si possono riconoscere molti punti di contatto. Tra questi, il giorno di festa e di preghiera settimanale, presente in tutte e tre le religioni, seppur in giorni e con riti diversi, ma anche il pellegrinaggio e le sue mete classiche: La Mecca per i musulmani, Santiago de Compostela o San Pietro per i cattolici, oppure la salita verso Gerusalemme per gli ebrei. Inoltre, si possono riscontrare somiglianze anche nei periodi di privazione corporea o di digiuno come il Ramadan nell’Islam, la Quaresima nel Cattolicesimo e lo Yom Kippur nell’Ebraismo. Potrei continuare ad enumerare le somiglianze legate proprio alle ritualità delle religioni, ma come chiunque può constatare da un libro di storia, i momenti di frizione e di scontro tra (oppure a causa delle) religioni sono ben superiori rispetto a quelli di pacifica convivenza tra le stesse, almeno nel bacino del mediterraneo.

 

Proprio pensando alla convivenza tra le tre religioni monoteiste viene subito alla mente il caso emblematico della Terra Santa. Qui, si assiste ad una commistione tra fede e identità nazionale che ha generato due opposti nazionalismi (quello israeliano-ebraico e quello arabo-palestinese) che hanno causato l’acuirsi e il prolungarsi del conflitto compromettendo ogni tentativo di dialogo tra le parti e hanno neutralizzato ogni possibilità di portare avanti il processo di pace. I tempi degli accordi di Oslo del 1993 e della celebre stretta di mano tra Arafat e Rabin  sembrano ormai remoti e anzi gli scontri e le rappresaglie a cui si assiste ormai in maniera costante sono la dichiarazione più lampante del fallimento degli accordi di pace. La cronaca degli ultimi giorni conferma il fallimento il lancio di razzi da parte dei due schieramente ormai sull’orlo di rapida escalation che potrebbe portare ad una nuova fase del conflitto. Tuttavia, proprio in questo vorrei segnalare due iniziative di dialogo interreligioso di cruciale importanza: Sabeel, un centro di teologia ecumenica di liberazione che promuove l’idea della pace attraverso le religioni; e Neve Shalom/Wahat Assalam, ossia una piccola oasi di pace, una comunità multiculturale e pluriconfessionale capace di dare prova di una convivenza duratura basata sul rispetto. È inoltre degna di nota la Dichiarazione di Alessandria del 2002: una dichiarazione congiunta redatta e firmata da esponenti delle fedi cristiana, ebraica e musulmana che condanna la violenza e promuove un lavoro unitario per la pace e la convivenza. In un contesto di conflitto, quale quello israelo-palestinese il dialogo interreligioso potrebbe essere un valido supporto per il processo di pace. Infatti questo potrebbe quanto meno contribuire all’umanizzazione dell’Altro che troppo a lungo è stato demonizzato, così come potrebbe diffondere un messaggio di mutuo riconoscimento e comprensione

 

Ma cosa c’entra questa digressione? Perché è importante tenere a mente quest’esempio? Perché finora il dialogo interreligioso si è dimostrato così scarsamente efficace? Perché per tempo immemore le religioni del libro hanno avuto un atteggiamento di egemonia e di superiorità nei confronti delle altre confessioni e questo ha dato luogo a scontri volti al dominio esclusivo sull’umanità. In particolar modo, il Cristianesimo e l’Islam si pongono entrambe come religioni universali e portatrici della rivelazione finale, della verità assoluta. Così è facile comprendere il perché l’approccio classico alle altre religioni sia proprio quello della “conversione degli infedeli”. Approccio che, come è intuibile, inibisce il dialogo e sfocia inevitabilmente nello scontro e nell’incomprensione. Tuttavia, auspico che visti i traguardi raggiunti negli ultimi 20 anni e sulla scia dell’enciclica Fratelli Tutti di Papa Francesco si possa veramente giungere ad una visione dell’umanità come una comunità libera da pregiudizi e scevra da discriminazioni.

 

In quest’ottica, per affrontare il dialogo interreligioso da una prospettiva nuova, è necessario prendere coscienza dei fallimenti e dei limiti delle iniziative già intercorse, ma soprattutto serve predisporsi per l’ascolto attivo, l’autocritica, e farsi guidare dalla curiosità della scoperta dell’Altro in assenza di giudizio e pregiudizio. In questo senso, un auspicio personale che faccio a chi si approccia ad un progetto oppure un’attività di dialogo interreligioso è quello di far proprie le quattro incommensurabili tipiche della pratica zen: l’amore per se stessi e per gli altri, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità. Quest’ultima intesa sia come equidistanza dalle diverse posizioni che come non attaccamento alle proprie convinzioni. Proprio come nella meditazione le quattro incommensurabili permettono di prendere rifugio così spero che nel dialogo possano aiutare i partecipanti a mettersi in una posizione di uguaglianza e di comprensione verso l’altro.